Risposta a Gianni Vattimo

Alan Sokal e Jean Bricmont

[Pubblicato in Il Sole 24 Ore, 23 maggio 1999, con il titolo "Fatti per criticare l'esistente".]

Poiché Gianni Vattimo è spesso considerato (a torto o a ragione) un filosofo di stampo "postmodernista", ci si sarebbe forse aspettati da lui una reazione negativa al nostro libro Imposture intellettuali, da poco uscito in italiano per l'editore Garzanti. È stata, dunque, una felice sorpresa vedere la sua recensione apparsa sulla "Stampa" del 20 maggio, nella quale mostra di condividere pienamente la nostra denuncia degli abusi del linguaggio scientifico compiuti da Lacan, Kristeva, Baudrillard, Deleuze, Guattari, Virilio e altri. Se, nonostante ciò, ci sentiamo obbligati a dissentire su alcuni suoi commenti concernenti la parte filosofica del nostro lavoro, non è con il desiderio di scatenare polemiche superflue -- meno che mai con una persona cortese com'è il professor Vattimo -- ma con lo scopo di chiarire i punti di accordo e di disaccordo tra determinate posizioni epistemologiche.

Secondo Vattimo, "la tesi teorica di Sokal e Bricmont si limita a sostenere che `il miglior modo di spiegare la coerenza della nostra esperienza è di supporre che il mondo esterno corrisponda, almeno approssimativamente, all'immagine che di esso ci offrono i sensi'". Ma questa non è affatto la nostra tesi principale; è piuttosto un'osservazione preliminare, e peraltro banale, che riassume una breve analisi del solipsismo e dello scetticismo radicale, dottrine che consideriamo inconfutabili ma prive di interesse. Se qualcuno si accanisse a sostenere che l'unica cosa che esiste nell'universo è la propria mente, o che il mondo esterno esiste ma è impossibile averne una qualsiasi conoscenza (anche approssimativamente) affidabile, non ci sarebbe alcun modo di convincerlo del contrario. Ma non abbiamo mai incontrato un solipsista o uno scettico radicale sincero, e dubitiamo che ne esista uno. Il rifiuto pratico di queste dottrine è obbligatorio non solo per il fisico o il biologo, ma anche per lo storico, l'idraulico e per ogni essere umano nella sua vita quotidiana.

Siamo comunque d'accordo con Vattimo quando osserva che "la conoscenza non è mai puro rispecchiamento disinteressato del `dato'". Ma da qui all'affermazione che "sarà lecito legare la conoscenza alle aspettative, interessi pratici, modi di pensare sociali storicamente mutevoli" c'è un salto notevole, e inoltre una forte ambiguità: si tratta di un'osservazione descrittiva oppure normativa? Se Vattimo vuole asserire che studiamo il mondo naturale e sociale in parte motivati da scopi pratici, nessuno avrà da ridire. Ma se sostiene che la veridicità o la falsità delle nostre teorie scientifiche sia anch'essa legata a interessi pratici, non possiamo che essere in profondo disaccordo. La superconduttività ad alta temperatura ci interessa per diversi motivi -- alcuni teorici, altri pratici -- ma la validità delle nostre teorie della superconduttività è determinata dalla corrispondenza o meno delle loro previsioni con il comportamento dei materiali superconduttori, non dai nostri "interessi". I militari hanno interesse al buon funzionamento delle loro armi nucleari; noi preferiremmo che non funzionassero mai. Ma questi interessi opposti sono irrilevanti per la questione della validità o invalidità delle teorie di fisica nucleare che sono alla base della progettazione delle armi.

Sono assai frequenti oggigiorno le proposte di ridefinire il concetto di "verità" -- tradizionalmente intesa come corrispondenza tra affermazione e realtà -- per significare semplicemente l'utilità oppure l'accordo intersoggettivo. Ma queste ridefinizioni radicali non funzionano. Sarebbe certamente utile far credere alle persone che se guidano in stato di ubriachezza andranno all'inferno o moriranno di cancro, ma questo non basta per rendere vere queste affermazioni (almeno nel senso in cui le persone di madrelingua italiana intendono abitualmente la parola "vero"). In altre epoche la gente concordava nel dire che la Terra fosse piatta, ma sappiamo ora che sbagliava. Né utilità né accordo intersoggettivo sono equivalenti a verità. Inoltre queste ridefinizioni non riescono neppure, come vorrebbero, a soppiantare la concezione tradizionale di verità. Dire che qualcosa è utile (per un determinato scopo) è già un'affermazione oggettiva (dev'essere realmente utile per lo scopo dichiarato) che si basa implicitamente sulla nozione di verità come corrispondenza. Lo stesso vale per l'accordo intersoggettivo: dire cosa pensano le (altre) persone è un'affermazione oggettiva che descrive una parte del mondo (sociale) "così come è".

Se insistiamo tanto sulla distinzione analitica tra essere vero ed essere considerato vero, è appunto per condividere il desiderio di Vattimo che la scienza "non sia presa sempre come la verità". Ma per mettere in discussione le opinione prevalenti, è essenziale tenere a mente che anche un largo consenso può indurre in errore: che esistono fatti indipendenti dalle nostre affermazioni, e che è nel confronto con i fatti (nella misura in cui possiamo accertarcene) che queste ultime devono essere valutate.